Ciro Spedaliere (Claris Ventures): “Biotech, un’opportunità di investimento dai ritorni elevati”

Gianni Balduzzi 03/10/2022

Da molti anni impegnato nel mondo del Venture Capital all’interno di realtà di prestigio (Innogest SGR, LVenture Group, Invitalia Ventures SGR, Vertis SGR), Ciro Spedaliere è oggi uno dei partner di Claris Ventures SGR Spa, che ha contribuito a fondare a fine 2019.

Abbiamo pensato di incontrarlo sia per capire meglio il momento complesso che il VC sta attraversando in questa fase economica, sia perché Claris SGR ha un focus molto specifico, sul biotech, e con lui intendiamo esplorare meglio questo mondo in veloce evoluzione.

Buongiorno dottor Spedaliere, vorrei chiederle innanzitutto un’impressione sulla congiuntura attuale e sul ripiegamento del settore del Venture Capital a livello globale

Questo ripiegamento può essere vero a livello generale, ma il nostro settore, il biotech, conosce dinamiche specifiche e diverse.

Tendenzialmente, infatti, in questo ambito vi è una grande spinta all’innovazione, anche come conseguenza del Covid. Sono cresciuti gli investimenti e sono nati molti fondi in Europa in quest’ultimo periodo, tra cui il nostro. 

Si tratta di fondi che hanno un orizzonte di 10 anni, e di conseguenza avendo raccolto molti capitali prima ora siamo ancora nella fase in cui si investe

Perché avete deciso di concentrarvi sul biotech?

L’idea è nata prima del Covid. In Europa e soprattutto in Italia la finanza per l’innovazione aveva prestato minore attenzione al biotech che in Usa.

Io credo che il settore scontasse il fatto che realizzare un farmaco è un processo lungo e costoso, molto più che ogni altro prodotto industriale. Vi sono gli iter e le sperimentazioni che la legge prevede. Può volerci anche 10 anni, un tempo molto lungo da attendere per un investitore.

È anche rischioso, per esempio in oncologia il tasso di successo di una sostanza è il 5%. 

Tuttavia i fondi che investono nel biotech sono quelli che hanno i ritorni più alti e exit più rapide, in 3-4 anni. Perché? Il motivo è che negli ultimi 10-20 anni il modello di ricerca e innovazione delle case farmaceutiche è cambiato molto. 

Ora è più frammentato: le aziende tendono a cercare all’esterno invece che internamente le innovazioni più interessanti per poi svilupparle loro.

Il loro budget di ricerca, infatti, è al 50% destinato alla ricerca interna e al 50% a quella esterna. Praticano una vera e propria Open Innovation, sono molto acquisitive, e continuamente interessate a nuove startup e nuovi progetti per rimpolpare le loro pipeline di prodotti. 

Ricordiamoci che un farmaco a fronte di 10 anni di ricerca  ne ha solo altri 10 di pieno sfruttamento commerciale, visto che in seguito arrivano i generici. 

Quindi questo nuovo modus operandi ha favorito la nascita di startup in cui poi voi investite?

Sì, la startup biotech nasce con il preciso intento di essere acquisita, non di arrivare al mercato. Per quest’ultimo obiettivo ci vorrebbero 10 anni e capitali infiniti. 

Quindi tutto il processo di discovery, sperimentazione pre-clinica, fase 1, fase 2, fase 3, è molto spezzettato, per cui il “gioco” è quello di investire in una startup che è in una di queste fasi e portarla da un punto di alto rischio a uno di rischio minore. 

Le case farmaceutiche di solito acquisiscono alla fine della fase pre-clinica o durante la fase 1 e 2, quando vi sono i primi test sull’uomo. Si assumono una parte del rischio finanziando lo sviluppo del prodotto.

Arrivare fino al punto precedente il quale in cui di solito vi è l’acquisizione non richiede moltissimi capitali, alcune decine di milioni di euro. È qui intervengono i fondi, e l’exit avviene mediamente in circa 4 anni. 

I nostri round vanno dagli 8 ai 23 milioni e una delle caratteristiche del biotech è che tendenzialmente le previsioni sull’ammontare di capitale necessario vengono rispettate, mentre negli altri settori spesso non accade.

Come operate, quindi, nello specifico?

Noi investiamo solitamente nella fase pre-clinica, in cui la sperimentazione è su animale o su linee cellulari. Facciamo dei round che consentano di completare questa fase e di preparare la prima di test sull’uomo, la 1, in cui si testa la sicurezza del farmaco, ed al massimo la 2, in cui si prova la sostanza sui pazienti. 

Che tipo di politica aziendale avete nelle società in cui investite?

Dipende molto dalla startup. 

Qui vi è da considerare un’altra peculiarità del biotech. Mentre normalmente in altri settori il fondatore conta moltissimo, è quello che ha avuto l’idea, l’ha realizzata, quasi da solo all’inizio, rischiando tutto, e almeno in principio conserva la maggioranza delle quote. Nel biotech è diverso. 

Un farmaco non lo si inventa in un garage. A crearlo sono per forza di cose scienziati e ricercatori che hanno studiato e lavorato in Accademia a lungo in precedenza. E ancora vi lavorano.

È molto difficile che questi lascino la propria carriera e si mettano a fare gli imprenditori, non avrebbero le competenze necessarie. Quindi quello che accade è che gli scienziati sono i fondatori scientifici della startup, ma l’Amministratore Delegato e il management sono altri, ovvero professionisti provenienti dal mondo del business. 

Una volta realizzato il composto il processo successivo è piuttosto standardizzato, con le varie fasi di test, e può essere preso in mano da persone diverse dai fondatori. 

Di conseguenza questi ultimi, avendo già un’altra occupazione, di tipo accademico, non hanno problemi a cedere quote ad altri soggetti.

In Italia il taglio degli investimenti nel mondo del Venture Capital è mediamente più basso che nel resto d’Europa, e vi sono meno round avanzati, di Serie A o B. Ci avvicineremo in futuro alla realtà degli altri Paesi?

Già negli ultimi due anni è stato fatto molto grazie al Fondo Nazionale Innovazione che ha smosso tanto le acque. 

Questo, però, non può fare tutto. Vi è bisogno che gli imprenditori e gli investitori facciano la loro parte.

Noi siamo nati come nuovo operatore da poco. Io e il mio socio lavoravamo da tempo in questo mondo e il nostro background ci ha consentito di essere credibili e quindi di raccogliere i capitali necessari.

Vi è bisogno che si creino nuovi operatori, e la cosa non è banale. Noi abbiamo imparato il mestiere perché abbiamo lavorato in altri fondi. Se questi sono pochi, come è accaduto negli anni passati in Italia, i team che possono realizzare spin off e crearne di nuovi di fondi sono a loro volta in numero limitato. 

Quindi è una situazione che può cambiare solo nel medio-lungo periodo.

L’industria del Venture Capital comunque si è già espansa. Basti guardare, per esempio, alla struttura di Cdp Venture Capital, che ha 80-100 persone, a tutti i fondi che sono già nati, come Claris stessa

Naturalmente farne nascere uno non è come creare unastartup, che si basa su un prodotto o un servizio, che l’investitore può vedere, toccare, e giudicare degno o meno di un investimento. 

Raccogliere capitali per un fondo vuol dire raccoglierli per un’idea, non vi è ancora nulla da mostrare. È necessaria qui l’esperienza passata, dimostrare di sapere il mestiere, ed è molto difficile che possa farcela chi non ha mai lavorato nel settore. 

Ricordiamoci anche che un fondo di Venture Capital per avere senso deve avere in gestione masse di almeno 40-50 milioni di euro, che non si raccolgono con i risparmi dello zio. Ci si deve rivolgere a investitori istituzionali, che guardano al curriculum delle persone responsabili del fondo. 

Noi peraltro abbiamo coinvolto anche investitori internazionali, e questo a mio avviso è importante. 

Un’altra strada per ingrandire l’ecosistema è certamente attrarre fondi dall’estero in Italia.

La ringrazio molto e vi auguro buon lavoro dottor Spedaliere

Grazie mille a voi


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