Bugnion S.p.a: "Le aziende italiane in media sono sempre più consapevoli dell'importanza della proprietà intellettuale, devono esserlo anche le startup"

Gianni Balduzzi 06/05/2022

Non potrebbe esistere innovazione senza un'adeguata protezione della proprietà intellettuale. Di questo delicatissimo compito si occupa da più di 50 anni Bugnion, tra gli studi leader in Italia e in Europa nel campo della difesa di brevetti, marchi, diritti d’autore e molto altro.

Abbiamo incontrato la sua presidente, Renata Righetti, e il responsabile dell’InnovationLab interno, Fulvio Miraglia,  per capire quanto sia cruciale per le aziende, anche quelle più piccole e le startup, registrare le innovazioni prodotte e proteggerle. E quali siano le tendenze in questo ambito, come sta cambiando la percezione di tale esigenza all’interno dell’ecosistema imprenditoriale e degli investitori.

Buongiorno, grazie per l’occasione di questo incontro. Vorrei come prima cosa chiedere quali sono i passi falsi o gli errori che secondo voi normalmente una startup compie ai propri inizi sul versante della proprietà intellettuale

[Renata Righetti] In realtà gli errori che compiono le startup non sono molto diversi da quelli che compiono altre aziende, in particolare le PMI. Vi è in Italia una creatività diffusa presso le imprese, che spesso però non si rendono conto di quanto possano valere invenzioni o migliorie, anche piccole, apportate a macchinari o processi.

La scarsa comprensione dell’importanza della proprietà intellettuale indebolisce le potenzialità di crescita delle aziende, startup comprese.

I titoli di proprietà intellettuale, infatti, non sono solo uno scudo contro eventuali copie o imitazioni ma, e di questo ci si è resi conto solo recentemente nel nostro Paese, anche un asset che incrementa il valore dell’azienda sul mercato. 

Tutte le indagini condotte a livello europeo confermano inoltre che le performance delle aziende che detengono e utilizzano uno o più titoli di proprietà intellettuale sono incomparabilmente migliori da tutti i punti di vista. 

E questo a dispetto di tutti i soliti luoghi comuni che continuano imperterriti a circolare contro ogni evidenza. 

A volte le startup sono spaventate dai costi del processo di brevettazione. È comprensibile, perché non si tratta di un’operazione a costo zero né nella fase di definizione del “cosa” brevettare né in quella successiva di estensione territoriale dei diritti.

Il primo consiglio che mi sento di dare ad una startup è di non avventurarsi da sola in un processo di brevettazione, come si usava fare un tempo, per risparmiare sui costi.

Esistono dei professionisti, iscritti ad un Ordine, che hanno maturato negli anni competenze specifiche in materia di brevetti, marchi e design: è importante contattare un Consulente in Proprietà Industriale e lo si deve fare da subito. Il consulente, per esempio, può aiutare la startup a meglio identificare e delimitare i confini dell’invenzione, nel caso si tratti di un brevetto.

Il processo stesso di stesura del testo talvolta aiuta a chiarire le idee e ad indirizzare i successivi sviluppi dell’invenzione in un processo o in un prodotto.

Ovviamente però non si deve posticipare troppo la brevettazione, perché se si parte troppo tardi il rischio è che l’invenzione venga mostrata/divulgata e, di conseguenza, non sia più brevettabile.

Vediamo che le startup in queste fasi iniziali commettono errori soprattutto se sono “autonome”, mentre quando sono incubate in un hub o in un acceleratore agiscono in modo più strutturato e fanno meno errori. 

Se invece vogliamo parlare dell’altro versante, gli investitori, qual è la loro percezione della proprietà intellettuale? Viene data la giusta importanza per esempio nel momento della valutazione dell’impresa?

[Fulvio Miraglia] Che oggi il valore delle aziende, soprattutto quelle innovative, risieda soprattutto negli asset intangibili, è cosa ben nota. Altrettanto noto, almeno all’investitore saggio, è che gran parte di questi asset intangibili consiste proprio in proprietà intellettuale.

Lo stesso investitore, però, sa anche che valutare la proprietà intellettuale di un’impresa non significa valutarne solamente il portfolio, ovvero quanti titoli (es. brevetti e marchi) sono posseduti, ma soprattutto la sua strategia in questo ambito, e quanto questa sia allineata e al servizio delle strategie di business e di innovazione.

L'investitore saggio sa anche che la proprietà intellettuale di un’azienda è strettamente collegata alla sua maturità. Quindi, se deve investire in una startup, sa che troverà un portafoglio di titoli di privativa probabilmente ancora immaturo, ma allo stesso tempo si aspetta che la strategia di proprietà intellettuale per il futuro sia chiara, che dimostri la capacità dell’impresa di mitigare i rischi, di cogliere opportunità e creare del valore proprio tramite la proprietà intellettuale.

Se invece deve iniettare capitali in una Pmi che sta scalando a livello internazionale, l’investitore si attende un portfolio di titoli Ip strutturato e coerente con la strategia di crescita internazionale. 

Purtroppo gli investitori saggi non sono ovunque. Ancora oggi, si riscontra una certa immaturità e superficialità anche in questo segmento, non solo in Italia.

Nel tempo le cose sono cambiate? Sia dal punto di vista delle imprese che degli investitori, intendo. Ci sono state delle trasformazioni negli ultimi anni e decenni?

[Renata Righetti] Dal lato delle aziende è cresciuta la fiducia nella proprietà industriale ed è diminuita la diffidenza, che era molto diffusa fino a 20/30 anni fa. 

Sono stati presi nel corso degli anni provvedimenti meritori a livello italiano ed europeo a favore della divulgazione dell’importanza della tutela della proprietà intellettuale e sono stati anche concessi finanziamenti e agevolazioni. Questo ha fatto sì che i numeri dei brevetti depositati da parte delle imprese italiane siano in continuo e stabile aumento, in particolare nell’ultimo paio d’anni. 

Questo secondo lei perché è accaduto?

[Renata Righetti] Perché nel 2020 c’è stato un periodo di forzato fermo delle aziende a causa del lockdown e, dopo lo shock iniziale del mese di marzo, moltissime imprese hanno utilizzato il fermo per valutare, rivedere e riprogrammare le proprie attività. Già in aprile molti imprenditori hanno cominciato a pensare in modo strategico, sul lungo periodo, a quando sarebbe finita l’emergenza Covid, e hanno avuto il tempo, sfruttando questa pausa forzata, di mettere ordine, ad esempio, nei propri portafogli marchi e design e di progettare nuovi prodotti e servizi. 

Noi possiamo testimoniare di aver avuto un incremento di lavoro e abbiamo visto che c’è stata una crescita significativa di nuovi brevetti e di nuovi marchi in Italia. Fa piacere constatare che anche i dati ufficiali dell’Ufficio dei Brevetti Europeo confermano questa nostra percezione: sia nel 2020 che nel 2021, infatti, le domande di brevetto per invenzione depositate a livello europeo da parte di aziende italiane sono cresciute percentualmente più che nel resto del Continente.

Insomma, c’è stata, credo, una presa di coscienza dell’importanza dell’innovazione e della sua protezione, che è stata vista anche come una via d’uscita da un periodo molto difficile.

[Fulvio Miraglia] Aggiungo, relativamente alle startup, che vi sono le stesse considerazioni da fare: c’è una crescente consapevolezza dell’importanza della proprietà intellettuale ma spesso non c’è una visione chiara; il più delle volte  non viene compreso il “come” e il “perché” la proprietà intellettuale possa rappresentare una leva strategica per la propria iniziativa imprenditoriale.

Probabilmente ciò accade perché, per decenni, abbiamo comunicato e diffuso il tema della proprietà intellettuale focalizzandoci troppo sui titoli: cos’è il brevetto, come si registra un marchio, quali requisiti deve avere un design, ecc. mentre non veniva data la giusta attenzione alla dimensione strategica dell’IP.

Dobbiamo ribaltare questo approccio, mettendo al centro la strategia IP e considerando i titoli come l’effetto della sua corretta implementazione.

Troppo spesso si brevetta soltanto per catturare il valore, per avere un’esclusiva e poter applicare un prezzo maggiorato rispetto ai nostri competitor. Ciò non è sbagliato ma la proprietà intellettuale ha un ruolo fondamentale anche nella generazione e comunicazione del valore aziendale. Grazie alla proprietà intellettuale possiamo dire al mondo, ai nostri clienti e ai partner chi siamo e come lavoriamo, possiamo abilitare collaborazioni strategiche con attori commerciali e tecnologici , per esempio, in un’ottica di Open Innovation, e possiamo accedere a sovvenzioni pubbliche, agevolazioni fiscali e a strumenti finanziari di debito ed equity.

Vorrei ora parlare di voi. Avete formato un InnovationLab. Come lavora, come sostiene l’ecosistema italiano?

[Fulvio Miraglia] L’InnovationLab è un'iniziativa che vuole diffondere il “giusto” tema dell’IP. Attraverso selezionate collaborazioni, come quella con Backtowork, cerchiamo di spostare il focus sull’importanza della proprietà intellettuale come elemento strategico per un’azienda.

Quello che facciamo è, quindi, co-sviluppare progettualità, con dimensioni regionali, nazionali, a volte anche internazionali, con partner italiani ed esteri che condividono con noi questa missione: diffondere la consapevolezza di quanto la proprietà intellettuale sia decisiva, tanto per la cattura quanto per la creazione del Valore aziendale. 

[Renata Righetti] Vorrei sottolineare che anche le startup devono pensare alla proprietà intellettuale nel suo complesso: non solo brevetti ma pure marchi, domain name, design, ecc. Il valore dell’innovazione e della creatività si può esplicitare in vari modi.

Vorrei chiedervi del vostro Japanese Desk. Vi occupate quindi della protezione della proprietà intellettuale delle aziende italiane che vanno sul mercato giapponese?

[Renata Righetti] Il Giappone è una delle aree in cui operiamo, e in cui vi sono alcune difficoltà di comprensione reciproca perché le due culture sono piuttosto diverse. Abbiamo un consulente giapponese che lavora con noi, e abbiamo cercato di tradurre il sistema giapponese per gli italiani e quello italiano per i giapponesi, fungendo, in qualche modo, da facilitatori.

Questo in realtà andrebbe fatto per molti Paesi, perché anche se i principi base della proprietà intellettuale sono sostanzialmente condivisi a livello internazionale, ci sono pur sempre differenze rilevanti, sia normative che implementative dei diritti, che possono portare a sostanziali differenze in territori diversi. I sistemi italiano e giapponese, in fin dei conti, non sono così lontani e la differenza risiede più che altro in una questione di stile e di modalità comunicative. Per questo abbiamo pensato di intervenire.

Abbiamo lavorato molto anche con colleghi americani perché, a dispetto di quanto si possa immaginare, per alcuni aspetti il sistema USA è più diverso dal nostro di quanto lo sia quello giapponese. E lo si nota, per esempio, nella drastica contrapposizione che c’è sulla questione delle indicazioni geografiche, cosa che invece non ritroviamo in Giappone o in Cina.

Insomma, nonostante i principi della proprietà intellettuale siano regolati a livello di Trips, nell’ambito del WTO, all’atto pratico le differenze sono importanti. Noi cerchiamo sempre di essere in contatto con i nostri omologhi negli altri Paesi e con le associazioni internazionali, per essere in grado di gestire al meglio gli interessi delle aziende in un sistema globale.

Grazie mille, e buon lavoro

[Renata Righetti] [Fulvio Miraglia] Grazie a voi!


Potrebbe interessarti anche:

business management industry

Industria 4.0: i profili professionali più richiesti nel 2020

business management innovation economy

L'Innovation Manager: chi è, cosa fa, quanto guadagna

business management

Il cyber security manager: chi è, cosa fa, quanto guadagna