Ignazio Rocco (Credimi): il fintech consente alle pmi di avere un rapporto umano più stretto con il creditore

Gianni Balduzzi 08/01/2021

La digitalizzazione è nel corso degli anni entrata nella vita di ognuno per semplificarla e migliorarla. Non poteva dunque non fare il proprio ingresso anche nell’economia, nel mondo dell'impresa, e in particolare in quell’ambito che soprattutto in Italia più che altrove è cruciale per le piccole e medie aziende, quello del credito.

È di questo che si occupa Ignazio Rocco di Torrepadula, amministratore delegato di Credimi, azienda fintech leader nel digital lending, che accelera e rende più semplice per le PMI l’erogazione sotto forma di credito di capitale proveniente da investitori istituzionali.

Lo abbiamo incontrato.

Buongiorno dottor Rocco, e grazie per l’occasione di incontro. Innanzitutto le vorrei chiedere, avendo lei a che fare con piccole e medie imprese, come sta reagendo il mercato a questa crisi? Ci sono luci oltre che ombre?

Questa è molto diversa da tutte le altre. Non è una crisi bancaria, finanziaria, di liquidità, è prima di tutto una crisi sanitaria, “fisica”, le aziende più colpite sono quelle interessate in senso fisico e materiale, perché la crisi porta a chiudere determinate attività, all’eliminazione della circolazione dei consumatori. Non si era mai vista prima una situazione in cui alcune aziende perdevano il 100% del proprio fatturato per mesi, non c’è nulla di paragonabile.

A fronte di un fenomeno di questo tipo, l’impatto per settori è profondamente diverso. Alcuni non sono colpiti o addirittura avvantaggiati dal calo di traffico fisico. E non parlo solo delle aziende tecnologiche, ma anche alcune esportatrici di determinati beni verso Paesi meno colpiti, che hanno operato anche quando il resto delle attività erano chiuse.

Il paradosso è che queste imprese oltre ad andare bene si sono anche ritrovate una grande quantità di credito, e senza grandi investimenti da fare hanno accumulato una liquidità enorme. I depositi delle imprese sono aumentati a dismisura mediamente.

Tutti i tesorieri di grandi imprese per esempio hanno tirato al massimo le linee di credito a disposizione, anche per l’incertezza, riempiendosi di liquidità, tenendola nei bilanci aziendali come protezione verso il futuro.

Poi naturalmente ci sono state le aziende dei settori ben noti, retail, ristorazione, ospitalità, trasporti, turismo, che sono state colpite in maniera violenta e catastrofica, fisica appunto, perchè il fatturato è scomparso.

Questa situazione, in cui si chiudono le strade di fatto e non si può circolare, non è risolvibile dalla finanza, che ha un ruolo invece di fornitrice di liquidità d’emergenza, e in Italia nonostante il solito catastrofismo dobbiamo dire che questa liquidità d’emergenza per fortuna non è mancata, sono stati erogati circa 100 miliardi, che hanno funzionato per tamponare la crisi.

Da questo punto di vista anche rispetto ad altri grandi Paesi europei l’Italia non si è comportata male.

E ora?

Ora però se le chiusure continuano non c’è finanza che possa risolvere. Il settore finanziario persino le banche centrali, possono fare ben poco. Non si può stimolare i consumi se sono di fatto proibiti. Piuttosto ci si deve porre il problema di come far funzionare un’economia “chiusa”, di guerra. 

E di come gestire l’epidemia che oggi è molto più importante, è la priorità assoluta, su cui in Occidente stiamo dando una prova pessima, rinunciando a usare la tecnologia, nonostante ve ne sarebbe la possibilità. Da ogni punto di vista, del tracciamento dei contagi ma anche dei call center utili a tale scopo, anche se il settore ICT ha elaborato a livello privato sistemi molto efficienti da tempo, che dovrebbero essere utilizzati. Manca concretezza.

A suo avviso questo è un segnale del fatto che c’è al di fuori degli addetti ai lavori una carenza di cultura scientifica e tecnologica che poi ha impatto nell’uso di strumenti digitali in economia e finanza? 

Sì, sicuramente indica una scarsa cultura scientifica, ma è anche un segnale di quanto sia diventata poco dinamica l’Europa, la sua mancanza di voglia, di competere, di darsi una scossa, di cambiare. Quello che è accaduto è grosso e dovrebbe portarci a essere più operativi nel tentare nuove strade.

Dove è finito lo spirito d’iniziativa, l’innovazione dell’Occidente? Abbiamo inventato il capitalismo, dovremmo essere più di tutti, più degli asiatici, quelli che si adattano ai cambiamenti, e invece ognuno continua a fare imperterrito quello che faceva un anno fa.

Ma se lasciando da parte per un attimo l’emergenza parliamo delle imprese in senso strutturale, sappiamo che di solito le PMI italiani ricorrono al debito più delle altre in Europa. Come voi e il fintech in generale cercate di migliorare quindi l’accesso al credito?

Il fintech rende l’accesso al credito delle PMI velocissimo, semplicissimo, molto più flessibile, e molto più vicino alle esigenze dell’impresa. Di fatto noi chiediamo solo la partita IVA e ci procuriamo da soli il resto. 

Le aziende così ottengono una risposta in due giorni, il che è fondamentale, perché sono imprese normalmente un po’ meno organizzate, meno capaci di pianificare, che hanno bisogno di agire velocemente.

Il fintech poi permette alle imprese di avere a disposizione un “mini-banchiere” che sa tutto di lei, e anche se di questo aspetto si parla meno è molto gradito alle aziende perchè può parlare con qualcuno che sente vicinissimo avendo tutte le informazioni rilevanti sul cliente e lo può consigliare su ciò che è più giusto da fare

Questa vicinanza importantissima può essere realizzata solo con la tecnologia, senza la quale sarebbe impossibile.

Dedichiamo una grande attenzione a questo.

Visto che ha avuto modo di lavorare anche all’estero come cambia l’approccio al credito lì rispetto alle PMI italiane?

Si deve distinguere tra imprese medie e piccole. Quelle italiane con più di 50 dipendenti, oltre per esempio i 10 milioni di fatturato, sono in tutto paragonabili a quelle tedesche e francesi delle stesse dimensioni, e anzi a volte hanno una produttività più elevata, e non ricorrono alla leva finanziaria più di quelle straniere, anzi.

Quelle più piccole e piccolissime, con 5-10-20 dipendenti, sotto i 5-10 milioni di fatturato, magari di settori più tradizionali, sono effettivamente più indebitate della media europea, e anche meno redditizie e meno produttive.

Dobbiamo poi fare dei caveat: nessuno sa l’impatto reale dell’economia sommersa, perchè se aggiungiamo il nero i numeri cambiano molto, probabilmente i numeri reali sono un po’ migliori. 

Si fa, nel caso delle piccole, meno uso della tecnologia e dell’e-commerce, di sistemi informativi per esempio per la contabilità. E chiaramente la pandemia in questo caso non ha aiutato.

Ma è proprio a queste aziende che il fintech può dare una mano, no?

Il fintech può dare una mano perchè può dare le risorse per cambiare in modo veloce. Però l’azienda è fatta dall’imprenditore, non dalla finanza. 

Quindi per chi ha volontà di cambiare la digitalizzazione e in particolare il fintech può fare moltissimo, tra il crowdfunding, il digital lending, ecc, ma è fondamentale la volontà dell’imprenditore di cambiare.

Per esempio se il semplice negozio al dettaglio rinuncia ora all’uso della tecnologia per fidelizzare i clienti, per fare il delivery, non si dimostra lungimirante

Il digital lending che voi erogate usa fondi in cui sono stati coinvolti investitori istituzionali, si conferma l’aumento d’importanza del venture capital, risulta anche a lei?

Sì, vi è stato sicuramente un grande aumento sia del venture capital che dell’interesse degli investitori istituzionali per investimenti non tradizionali che noi proponiamo come le note di cartolarizzazione che emettiamo, che rappresentano i finanziamenti che eroghiamo. 

Dieci anni fa questo tipo di investimenti questi investitori istituzionali non li facevano. Hanno la caratteristica da un lato di non essere liquidi, ma dall’altro di generare rendimenti maggiori della media che derivano dal fatto che dalle pmi si possono ottenere tassi discreti, soprattutto se le aziende vengono ben selezionare per minimizzare il rischio di perdita del credito.

Cosa si potrebbe fare per favorire una allocazione del risparmio che vada maggiormente in questa direzione?

Credo che a livello fiscale la normativa sia già molto favorevole. Aiuterebbe molto una maggiore certezza delle norme e velocità sul trattamento di tali investimenti da parte della BCE e delle Banche centrali Europee.

Oggi c’è molto sospetto intorno ad essi, vengono assimilati agli investimenti pericolosi che hanno generato la crisi del 2008, viene fatta di tutta l’erba un fascio. Si va oltre la protezione dal rischio, si va nell’iper-regolamentazione, non si considera che un conto è sono i vecchi subprime, un’altro è un portafoglio di finanziamenti normali, estremamente trasparenti, a normali piccole imprese selezionate. Si tratta di cose molto diverse ed è sbagliato scoraggiarle allo stesso modo.

La ringrazio moltissimo per avere risposto alle nostre domande, buon lavoro

Grazie a voi


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