Piccola e grande impresa, la necessità di un’alleanza, oltre i vecchi luoghi comuni

Gianni Balduzzi 17/07/2020

L’Italia Paese delle piccole imprese

L’Italia è da moltissimo tempo il Paese in Europa con più imprese, questo è risaputo, sono circa 3,8 milioni contro 2,8 in Germania, ad esempio. Naturalmente sono incluse le tantissime imprese individuali di quanti svolgono la propria attività spesso senza neanche un dipendente, artigiani e commercianti in particolare. 

Ma anche considerando solo quelle con addetti possiamo con ragione dire che siamo la patria delle piccole aziende. Del milione e 33 mila imprese, 821 mila, il 79,5%, hanno tra i 3 e i 9 dipendenti e possono essere considerate micro. Calcolando tutte quelle che hanno meno di 50 addetti si arriva a comprendere in questa categoria il 97,6% delle attività e soprattutto il 55,6% dei lavoratori che non sono autonomi o dipendenti pubblici, ovvero più di 7 milioni.

La crisi che ha colpito l’Italia dal 2008 in poi si è abbattuta soprattutto su queste, in Italia come nel resto dell’Occidente, ma le piccole imprese hanno saputo resistere e riprendersi. In particolare quelle con dipendenti. Se centinaia di migliaia di quelle individuali hanno chiuso, le aziende con 3-49 addetti sono diminuite solo di 14 mila tra il 2011 e il 2018, rimanendo sopra il milione, con una riduzione inferiore all’1% della forza lavoro.

Naturalmente questi sono dati aggregati, è proseguito lo shift in atto da decenni dall’industria ai servizi, e alcuni settori come l’edilizia hanno sofferto veramente, ma nel complesso è evidente la capacità di resistenza del tessuto imprenditoriale. 

Volendo guardare il bicchiere mezzo vuoto, invece, è chiaro che quella ripresa che dal 2014 ha portato molti indicatori al di sopra dei valori pre-crisi non è riuscita a farlo con questo mondo. 

Siamo ora all’inizio di un’altra crisi, quasi sicuramente ancora più devastante della precedente, e se vogliamo che questa volta non sia fatale, dobbiamo tutti fare di più, perlomeno abbandonare alcuni stereotipi, blocchi mentali, pregiudizi ed ideologie che finora hanno popolato il pensiero di molti attori del nostro sistema economico, dagli imprenditori stessi ai risparmiatori, dagli economisti al legislatore.

Il darwinismo sociale delle piccole imprese durante una crisi non serve realmente a nessuno

C’è una tentazione, quasi un sottile piacere, in molti economisti e osservatori, è quella di vedere il nostro sistema economico seguire le regole più pure del libero mercato, di ammirare la mano invisibile all’opera nel far fallire le attività improduttive o presunte tali e rafforzare quelle che invece lo sono consentendo una allocazione dei capitali più efficiente. Ciò si è tradotto nel concreto in questi anni  in una sorta di voglia di eutanasia per una parte importantissima di piccole e micro-imprese. Alla base l’evidenza che vede queste ultime come meno produttive, con un valore aggiunto per addetto in quelle con 0-9 dipendenti di meno di 30 mila euro contro i 72 mila di quelle con più di 250, il 50% delle quali esporta all’estero contro meno del 30% di quelle con meno di 50 addetti.

Inutile dire però che questa visione ideologica non regge la prova della realtà. In un periodo di crisi o anche di stagnazione non vi sarebbe mai quella compensazione, a livello di occupazione e di capitali, desiderata. 

I dipendenti delle aziende più piccole svanite nel nulla non sarebbero automaticamente assorbiti nelle grandi, così come i capitali investiti. Il gap tra skill richiesti ed esistenti in particolare nelle multinazionali, dovrebbe essere ormai chiaro, è sempre più vasto, non solo in Italia, e non possiamo pensare a un travaso perfetto di lavoratori da piccole aziende a grandi, in maggioranza operanti in settori completamente diversi.

 Non vi sono risorse pubbliche che possano sostenere, in un periodo di altissimi debiti e di recessione, il reddito dei lavoratori di imprese fallite. E non accadrà, questo è uno dei tasti più dolenti ma reali, che la famiglia titolare di una piccola impresa non più attiva possa veicolare i pochi capitali rimasti in Borsa, per esempio, per finanziare la grande.

Allo stesso tempo non ci si può attendere che tutte le piccole aziende, anche sopravvivendo e rimanendo indipendenti, possano diventare grandi, non è statisticamente possibile, sarebbe come pensare che tutti gli impiegati possano divenire quadri o dirigenti. 

Le multinazionali e le grandi imprese non sono “i cattivi”

E’ chiaro che lo sforzo di superare i luoghi comuni deve essere fatto proprio anche dagli imprenditori. in particolare quelli piccoli.

Non possiamo negare che in molti vi è ancora una ostilità quasi “di classe” verso la grande impresa e ancora di più la multinazionale, viste come concorrenti illegittime, come realtà rapaci e senz’anima che predano le aziende più piccole, forti spesso di un accesso ai capitali che è pura illusione per i più piccoli.

Questa contrapposizione, talvolta artificiale, ha prodotto in Italia più che altrove una resistenza ad acquisizioni, fusioni, ingressi nella compagine societaria delle imprese che le avrebbero arricchite e rese più robuste. Spesso vi è anche una resistenza a crescere anche da sole, come se ci fosse una zona comfort da cui non uscire.

Per fortuna tra le nuove generazioni di piccoli imprenditori, in particolare tra coloro che hanno dato vita a startup innovative, questi pregiudizi sono molto inferiori, e si nota un atteggiamento completamente diverso, vi è la voglia di collaborare con le aziende più grandi, di crescere per avvicinarcisi e, perchè no, di essere anche acquisiti, realizzando quella exit che spesso è l’obiettivo principale dello sforzo iniziale.

Il ruolo dello Stato, necessario ma non sufficiente

Si tratta di un trend molto positivo, da sottolineare. Va incoraggiato ulteriormente con un nuovo atteggiamento del legislatore e del mondo dell’impresa, nuovi incentivi e nuove leggi. 

La sopravvivenza e il rafforzamento delle aziende più piccole deve essere un obiettivo, in tempi di crisi, attraverso un uso mirato a questo scopo delle limitate risorse disponibili. Che andrebbero indirizzate prioritariamente verso la facilitazione dell’incontro tra piccola e grande impresa, tramite soglie più alte per le detrazioni sugli investimenti di persone giuridiche in imprese, allargando a tutte le PMI le regole ora presenti solo per startup e PMI innovative. 

Piccole imprese che possono essere invogliate ad avviare aumenti di capitali con la possibilità di detrarre costi o trasformarli in credito d’imposta. 

E possono divenire più attrattive con un sostegno pubblico alla loro maggiore digitalizzazione e all’adozione di tecnologie che oggi fanno la differenza, come Internet of Things, stampa 3D, Big Data, uso più massiccio del Cloud, ecc. Si tratterebbe di un intervento complementare e rafforzativo rispetto a quello di grandi player come Google che vuole investire 900 milioni in 5 anni in Italia, per esempio.

Chiaramente non basta, tocca anche ai più diretti interessati, gli imprenditori, voler essere protagonisti di una nuova pagina del capitalismo italiano, che abbandoni in un momento di tempesta le vecchie segmentazioni e sappia creare maggiore amalgama. I piccoli hanno bisogno della solidità delle grandi imprese, e queste necessitano le competenze e la passione dei piccoli imprenditori. Troppo a lungo sono rimaste separate, anche socialmente e culturalmente. Non possiamo più permettercelo.


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