Giuliano Cazzola: “Scuola e formazione continua sono le chiavi per l’occupazione giovanile. E incentiviamo veramente la previdenza integrativa”

Gianni Balduzzi 19/11/2021

Giuliano Cazzola è uno dei massimi esperti di diritto del lavoro, di previdenza e di welfare in Italia. Dopo una lunga esperienza nel sindacato è stato dirigente al Ministero del Lavoro e poi nel Collegio dei Sindaci di Inpdap e Inps.

Ha rappresentato il Governo italiano presso l’Unione Europea nel Comitato di protezione sociale presso il Consiglio Europeo, e da parlamentare è stato vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera. 

Docente di diritto del lavoro e della previdenza sociale, ha pubblicato diversi libri su questi temi, e proprio per questo abbiamo voluto incontrarlo, per parlare di Great Resignation, Pnrr, e altri temi di attualità.

Buongiorno professor Cazzola, grazie per avere accettato di rispondere alle nostre domande. Tra i frutti inaspettati della pandemia in campo economico vi è il fenomeno della "Great Resignation", ovvero un deciso aumento delle dimissioni, in particolare tra i più giovani. E colpisce sia gli Usa, che l'Europa che l'Italia. Quali pensa siano le cause profonde?

E’ presto per valutare l’entità del fenomeno e comprenderne i motivi, sempre che il dato risulti particolarmente fuori norma. Nel mercato del lavoro vi sono sempre milioni di persone che cambiano lavoro nel corso di un anno. 

Solo nel primo trimestre del 2021, incluse le trasformazioni a tempo indeterminato, sono stati attivati poco meno di 2,5 milioni di contratti. Ovviamente non si tratta di nuove assunzioni ma della mobilità fisiologica del mercato del lavoro. Se fossimo in grado di approfondire il fenomeno (a cui è già stata attribuita una visione escatologica) forse ci accorgeremo che le dimissioni in gran parte vengono date perché si è trovata un’occupazione migliore, visto che oggi esiste un’effettiva difficoltà a reperire manodopera adeguata alle esigenze delle imprese. 

La cosa che mi lascia basito (sono stato sindacalista per quasi 30 anni ed ho ricoperto importanti incarichi) è l’incapacità dei sindacati di comprendere e prendere in considerazione la realtà del mondo del lavoro. Le aziende assumono  e non trovano personale, ma loro chiedono il blocco dei licenziamenti e la proroga della Cig. 

La loro principale preoccupazione è quella di mandare in pensione degli ‘’anziani giovani’’ come sono quelli in grado di avvalersi dei trattamenti anticipati. La loro è una narrazione di una società che non esiste. Poi – io sarò politicamente scorretto – ma quando Luca Ricolfi scrive un saggio sulla società signorile di massa, coglie un aspetto reale e sottovalutato. Esiste molto lavoro che viene rifiutato. Se si consulta inoltre il rapporto mensile Excelsior delle Camere di Commercio troviamo difficoltà nelle assunzioni che talvolta sfiorano anche il 50% del fabbisogno.

I più giovani sono stati anche i veri perdenti del mondo del lavoro negli ultimi 20 anni. Se da un lato l'introduzione della flessibilità è stata necessaria, dall'altro come assicurarsi che a rimanere occupati per anni con contratti a termine non siano sempre gli stessi soggetti? 

Se non fosse di cattivo gusto scherzare su argomenti così delicati verrebbe da dire che la strada per non gravare sempre sugli stessi soggetti l’aveva trovata il Decreto Dignità.

La reintroduzione delle condizionalità dopo un anno avevano prodotto il mancato rinnovo dei contratti trascorso quel periodo, perché le aziende assumevano nuovo personale. Tanto che senza fare troppo clamore il decreto è uscito di scena in occasione della crisi. Anche nel decreto Poletti i contratti a termine non erano prorogabili oltre un triennio nella stessa mansione. 

Poi occorre distinguere: vi sono settori in cui sono le stagioni a richiedere assunzioni limitate nel tempo, e non si tratta solo del turismo, ma in generale dei servizi e di certi settori industriali. Che poi sono quelli che hanno pagato il costo più elevato alla politica delle chiusure e delle restrizioni contro la pandemia. 

Il lavoro a termine in Italia è in linea con gli standard europei: nel 2020 l’annus horribilis, quelli in vigore erano  2,7 milioni (più o meno come negli anni precedenti) a fronte di 15 milioni di dipendenti a tempo indeterminato. Io credo che una possibile non dico via d’uscita, ma di graduale contenimento del fenomeno possa essere lo sviluppo della somministrazione, in modo che sia crescente, da parte delle agenzie del lavoro, l’assunzione stabile del personale che collocano a termine nelle aziende committenti quando queste  devono affrontare dei picchi produttivi.

Gli stessi lavoratori precari o comunque con salari stagnanti under 40 o under 45 riceveranno un pensione molto più misera di quella dei genitori. Come ovviare a questo, avendo a disposizione ancora del tempo? Con politiche pubbliche? Quali? Con un incentivo della previdenza integrativa?

Anche oggi ci sono milioni di ex lavoratori (e soprattutto ex lavoratrici) che percepiscono pensioni molto basse ed integrate al minimo (intorno ai 600 euro mensili lordi per 13 mensilità) se ne hanno i requisiti. E teniamo conto che per ottenere una pensione previdenziale oltre al requisito anagrafico occorre aver lavorato almeno vent’anni. 

I precari, i discontinui, gli stagionali ci sono sempre stati in particolari settori merceologici. E’ singolare che in questo Paese ci si preoccupi dei giovani per quando saranno anziani prossimi alla pensione, ma non per quando sarebbe necessario che avessero un lavoro. E trovo singolare anche il ragionamento che fanno anche i sindacati nei confronti dei giovani: pretenderebbero di caricare sulle loro spalle, sui loro redditi e contributi,  centinaia di migliaia di lavoratori che vanno in quiescenza poco più e che 60enni che ci rimangono più di vent’anni, e si limitano a promettere loro che vedranno il Sol dell’avvenire da pensionati con la c.d. pensione di garanzia. 

Credo che sarebbe meglio che i giovani facciano i giovani ovvero che si creino per loro condizioni di lavoro nel quadro delle prospettive aperte col Pnrr. Certo, bisogna cominciare dalla scuola, dal suo rapporto con il lavoro; occorre attrezzare strumenti di politiche attive, sancire il diritto alla formazione continua

In attuazione del Pnrr è previsto un programma definito GOL che dovrebbe nei prossimi anni predisporre l’occupabilità di 3 milioni di persone, giovani e donne in particolare.

I disoccupati hanno a disposizione anche il Reddito di Cittadinanza. Io non sono contrario in via di principio,  Credo però che vada radicalmente cambiato ben oltre quanto intende fare il governo nel Ddl di bilancio. Non è possibile avvalersi dello stesso strumento (appunto il RdC) per platee tra loro diverse. Un disoccupato è uscito temporaneamente dal mercato del lavoro ma ne ha conoscenza, è ‘’occupabile’’ magari con un intervento formativo adeguato. E con la dote di un assegno di ricollocazione da gestire con un'agenzia del lavoro. 

Ma un povero è una persona che ha vissuto ai margini del mercato del lavoro, spesso di lavoretti saltuari in nero, ha un basso livello di scolarizzazione (il 72% degli iscritti a cui è riconosciuto un profilo di occupabilità ha frequentato fino alla scuola dell’obbligo). Chi è in grado di offrigli tre occasioni di lavoro nell’arco di 18 mesi? Soprattutto quale sarebbe l’azienda disposta ad assumerlo? In questi casi l’idea di cittadinanza deve significare innanzi tutto inclusione, deve riguardare la formazione di un cittadino prima che di un lavoratore. 

Quanto alla previdenza integrativa, vi è innanzi tutto l’esigenza di occuparsene: è dal 2007 che nessun governo se ne prende cura se non per aumentare la tassazione dei rendimenti, che è stata portata dall’11,5% al 20%, mentre ci si aspettava una riduzione al 6%. Ecco un primo problema. 

Poi l’utente tipico dei fondi pensione è un lavoratore stabile, sindacalizzato, sui 40-45 anni se non di più. La fonte principale del finanziamento è il Tfr che è una prerogativa del lavoro dipendente. Personalmente credo che sarebbero utili forme di opting out, ovvero di possibile allocazione di alcuni punti dell'aliquota della previdenza obbligatoria alla previdenza privata a capitalizzazione. Vorrebbe dire mettere a disposizione adeguate risorse per la previdenza privata anche per chi non ha il Tfr. Basta fare due conti per capire la difficoltà dei giovani ad aderire ad una forma di previdenza complementare. 

Prendiamo il caso di un collaboratore a partita IVA, magari giovane, che già deve sobbarcarsi da solo il 25% dell’aliquota della Gestione Separata. Qualora intendesse fare un versamento adeguato per un fondo aperto, sempre  con risorse  provenienti dal suo reddito, forse si domanderebbe se ne vale la pena, visto che si deve pur vivere anche prima di andare in pensione. In sostanza è il peso economico della previdenza obbligatoria che scoraggia l’adesione a quella integrativa, soprattutto se vengono meno i vantaggi fiscali. 

Che giudizio dà del Next Generation Eu come politica europea, e del Pnrr italiano? Avrebbe fatto qualcosa in modo diverso?

Per me la cosa più importante di questa operazione è ciò che ha comportato sul versante istituzionale. Ora la Ue non assegna solo i compiti, ma si assicura che li facciamo e nel migliore dei modi. 

E’ innescato il pilota automatico. Sul piano nazionale occorre solo vigilare che nessuno lo disinneschi, da oggi al 2026. C’è però un rischio: l’assuefazione alla droga dello spendere in libertà senza che nessuno ti richiami. E finire per credere che la normalità sia questa e che le politiche del rigore fossero quelle sbagliate, a cui non si deve più tornare. 

Quanto al Pnrr si potrebbe dire con un proverbio popolare ‘’chi legge il cartello non mangia il vitello’’. E’ invalsa la convinzione che la transizione ecologica, per esempio, sia una passeggiata da affidare alle persone di buona volontà. Salvo lamentarsi se magari un’azienda della filiera dell’auto chiude a causa della decisione europea di produrre solo macchine elettriche dal 2035. 

Per quanto interessa a me io trovo il Pnrr debole sul terreno del lavoro e del welfare. E ciò non lo rende credibile. Del resto lo vediamo concretamente anche nel Ddl di bilancio  che il governo gioca a rimpiattino sulle pensioni. Quota 102 nel 2022 è inevitabilmente una misura che serve a prendere tempo.

Crede che da qui al 2026 saranno messe in atto le riforme promesse? In quali campi potremmo farcela? E per quali è invece più pessimista?

Guardi a mio avviso le misure più efficaci sono state quelle che hanno ripristinato la normalità: la riapertura, la fine del blocco dei licenziamenti. La ripartenza è imponente, ma come ha ricordato Mario Draghi si tratta di un rimbalzo che non è ancora arrivato a recuperare ciò che si è perduto in 100 giorni di lockdown nella prima metà del 2020. 

Per consolidare la ripresa sono necessarie le riforme. Il ritardo nella presentazione del Ddl di bilancio non è stato un segnale positivo. 

E poi ci sono dei rischi che vengono sottovalutati: i segnali di una possibile inflazione da costi per l’esplosione dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei servizi. Per ora si dice che si tratta di un fenomeno transitorio derivante dalle destabilizzazioni dovute alla pandemia. Ma chi garantisce che non si debba ricorrere tra qualche mese a nuove restrizioni visto che si parla di quarta ondata?


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