Francesco Bollazzi (Liuc): "Sempre più imprenditori si accorgono delle opportunità di Venture Capital e Private Equity, ma ora ci vuole una semplificazione burocratica"

Gianni Balduzzi 25/02/2022

Fenomeni così recenti e soprattutto a veloce evoluzione come la crescita del Venture Capital e del Private Equity necessitano di un monitoraggio continuo. È quello di cui si occupano due Osservatori della Liuc Università Cattaneo, il VeM (Venture Capital Monitor) e il PEM (Private Equity Monitor). 

Abbiamo voluto incontrare Francesco Bollazzi, docente di Corporate Finance proprio in questo ateneo, nonché Coordinatore e Membro del Comitato Scientifico del PEM e del VeM, per comprendere meglio come questo mondo sta evolvendo, per quale motivo, e quali sono le tendenze per il futuro

Buongiorno professore e grazie per aver acconsentito a incontrarci. Partendo dal Venture Capital vorrei chiederle prima di tutto: come mai la sua crescita è proseguita anche durante la pandemia, in controtendenza rispetto al resto dell’economia?

Questo ha abbastanza sorpreso anche noi. Effettivamente negli ultimi due anni tutto il mercato degli investimenti in capitali di rischio, che sia Private Equity o Venture Capital, è in crescita esponenziale.

Nel giro di 3-4 anni è triplicato. Nel caso del Venture Capital l’espansione del 2020 è stata in gran parte confermata anche nel 2021, e lo vediamo nei nostri report: 330 investimenti, oltre 650 milioni di euro investiti, solo nel 2020. 

La crescita avviene perché c’è una maggiore consapevolezza da parte degli attori principali, gli imprenditori, riguardo le opportunità che il capitale di rischio offre. L’aumento della domanda, però, si accompagna a quello dell’offerta: sono di più gli operatori attivi sui vari segmenti. 

Il Covid non ha provocato una crisi in questo mercato perché il Venture Capital in Italia come altrove si focalizza sulle startup innovative e a livello settoriale sull’ICT, e in particolare sulle tecnologie digitali. In questi due anni questi segmenti, pensiamo alla digitalizzazione dei servizi per esempio, hanno anzi ricevuto un’ulteriore spinta dalla pandemia.

Questa potrebbe essere una spiegazione. Si è avvertita con ancora maggiore intensità rispetto al passato la necessità di rendere tante operazioni realizzabili in modo automatico, da remoto. Tanti investimenti, abbiamo visto, sono stati in startup diverse che al di là del settore sottostante (che può essere il food o la finanza, o altro), hanno in comune una componente tecnologica importante che consente un’esperienza non solo digitale, ma anche fai da te. 

A suo avviso c’è stato anche un cambio di abitudini da parte dei risparmiatori, oltre che dei fondi e dei grandi player?

Vi è tutta una serie di operatori strutturati, i fondi di Venture Capital o di Seed Capital, che sta raccogliendo i frutti del lavoro fatto sotto traccia gli anni precedenti, poi degli operatori informali che hanno cominciato a non lavorare più in modo completamente slegato, ma aggregandosi ed organizzandosi in Club Deal, come Italian Angels for Growth o Club degli Investitori, che si sono dati una struttura per agevolare il contatto con gli imprenditori. 

A tutto ciò si aggiunga il lavoro dell’Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt (Aifi), che ha cercato sempre più di spingere verso normative e una fiscalità che incentivassero gli investimenti.

Fondo Italiano d’Investimento e CdP (Cassa Depositi e Prestiti) sono anch’essi diventati attori importanti, investendo risorse importanti che gestiscono in prima persona o assegnandole a investitori dislocati sul territorio che conoscono meglio il sistema imprenditoriale di una determinata zona. 

Per quanto riguarda i piccoli risparmiatori, questi si sono attivati tramite canali come il vostro, quello dell’Equity Crowdfunding, che per il momento è la via maestra per il privato che vuole sostenere una startup.

Parlando invece di Private Equity, nonostante la crescita degli ultimi anni rimaniamo indietro rispetto ad altri Paesi occidentali, come mai secondo lei?

Diciamo che però il margine che ci separa da economie a noi comparabili sta diventando più risicato. Siamo naturalmente lontani dal Regno Unito, ma se ci paragoniamo a Spagna, Francia, Germania, sia sul fronte della raccolta che in quello degli investimenti, stiamo crescendo più velocemente.

Noi mappiamo i primi round di investimenti, e parliamo quindi di un mondo che nel 2014, l'anno peggiore, contava 65 investimenti, tre anni fa si è riportato sui livelli precedenti alla crisi del 2008-2013, sulle 110-120 operazioni, e nell’ultimo anno ne ha viste quasi 400

Questo dà l’idea. Siamo di fronte a deal di importanza primaria, come quello di Autostrade. 

Certamente, rispetto ad altri Paesi c’è un gap, che però si sta colmando perché anche in questo caso, come per il Venture Capital, c’è maggiore coscienza da parte degli imprenditori delle opportunità del Private Equity, e poi vi è un incremento degli operatori attivi, passati da una 70ina di 7-8 anni fa ai circa 180 oggi

Abbiamo anche recuperato un certo appeal come sistema Paese, cosa che ha portato tanti operatori internazionali interessati a noi: poco meno di metà delle operazioni è riconducibile a loro. Molti di essi, tra l’altro, scelgono di avere una base a Milano, altri tengono comunque un occhio vigile sull’Italia. 

A proposito di questo, in Italia vi è molta sensibilità sugli interventi stranieri, sulle acquisizioni di nostre aziende. Secondo lei vi è un pericolo in questo senso, e in ogni caso rappresentano qualcosa di negativo?

Ci sono alcuni asset fondamentali che devono restare in mani italiane, ma per quanto riguarda altre tipologie di acquisizioni io non sarei così preoccupato. Quando siamo stati oggetto di shopping da parte di operatori di altri Paesi svendendo aziende a prezzi bassi, questa non è stata certo una strategia vincente, ma in generale se le nostre imprese hanno un appeal verso investitori stranieri io non la vedo come una cosa negativa, anche perché anche noi potremmo fare lo stesso

Per esempio quest’anno il nostro Osservatorio ha cominciato a mappare le operazioni M&A Italia su Estero da parte di aziende partecipate da Private Equity, ne abbiamo contate 50, e sono in aumento. 

Tra l’altro essere comprati può voler dire farsi colonizzare, soggiogare, ma può anche significare diventare parte di un polo, di un sistema di imprese che fornisce ottime sinergie ed eccellenti curve di esperienza, con un equo scambio di vantaggi. 

Spesso, poi, gli stessi che temono le acquisizioni sono coloro che anni fa lamentavano la mancanza di investimenti stranieri in Italia. 

Ora questi sono ripresi, invece, sia grazie all’eccellenza di molti nostri prodotti, sia a una maggiore stabilità politica che nell’ultimo anno abbiamo dimostrato.

Quello che, invece, rimane disincentivante per gli investitori è la situazione della burocrazia e della giustizia, il pericolo rappresentato da contenziosi che magari durano 10 anni

Secondo lei se ci fosse qualcosa da cambiare per attirare più capitali cosa sarebbe?

Direi proprio la burocrazia, intesa a 360 gradi, ovvero la parte legale, la parte fiscale, e il suo rapporto con il pubblico. Vi è bisogno certamente di una semplificazione burocratica.

Grazie mille, professor Bollazzi

Grazie a voi


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