Carluccio Bianchi: il Next Generation EU può non bastare se non è accompagnato a riforme strutturali per tornare a crescere

Gianni Balduzzi 05/02/2021

Carluccio Bianchi, già Preside della Facoltà di Economia presso l’università di Pavia tra il 2006 e il 2012, docente dagli anni ‘70 di discipline macroeconomiche come Politica Economica, Economia Internazionale e Analisi della Congiuntura presso l’ateneo pavese, l’Università del Piemonte Orientale, e altre università italiane, è certamente uno degli economisti più indicati per capire la direzione che l’Italia sta prendendo, l’importanza e le sfide del Next Generation EU.

Per questo abbiamo voluto incontrarlo. 

Buongiorno professor Bianchi, grazie per avere acconsentito all’intervista. Immagino abbia avuto modo di leggere il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo, che impresa le ha fatto?

Certamente è un netto miglioramento rispetto alla versione precedente, che era un canovaccio di indicazioni generali, ma che non conteneva specificazioni precise.

Innanzitutto vi è un miglioramento nella definizione delle risorse disponibili, perché oltre ai 209 miliardi del NexT Generation EU vero e proprio sono stati aggiunti altri fondi che la Commissione Europea mette a disposizione, come il Just Transition Fund, il React EU, e il Fondo di Sviluppo e Coesione, che ha avuto un aumento di risorse. Tanto che alla fine i miliardi cui arriva il Piano sono 223.

Sono anche meglio specificate le cosiddette missioni, ovvero i grandi obiettivi che il Piano propone e la ripartizione delle risorse all’interno di questi.

Quello che manca, e credo che lo stesso Commissario Gentiloni ne abbia fatto menzione, è quanto la Commissione chiede, ovvero una specificazione oggettiva e concreta dei progetti che si vogliono implementare, degli strumenti scelti per raggiungerli e una valutazione analitica degli impatti di ogni progetto. 

Nel Piano c’è qualche specificazione più precisa solo per le infrastrutture ferroviarie o sulle borse di studio per la formazione scolastica, ma poi sulla Coesione, la digitalizzazione, in generale o della Pubblica Amministrazione e della sanità, non ci sono indicazioni concrete di come quella missione sarà affrontata, con quali progetti, con quali strumenti, e con quali tecniche di valutazione. Il piano francese è molto più dettagliato e specifico al riguardo.

C’è a suo avviso il rischio di una bocciatura a Bruxelles?

C’è il rischio di un rimando con una richiesta di maggiori specificazioni, con proposte di modifiche.

C’è poi un elemento, riguardo alle valutazioni di impatto, che lascia perplessi. Nel Piano italiano si stima che Next Generation EU e fondi annessi porteranno a un aumento del PIL del 3% nel giro di 6 anni, più o meno lo 0,5% all’anno. Non si capisce a quanto ammonti il moltiplicatore degli investimenti previsti, quale sia quello dei sussidi e come sia stata calcolata questa cifra.

Considerando che una parte delle risorse sarà usata per finanziare progetti già decisi dal governo in precedenza, i nuovi investimenti veri e propri ammontano a circa 140 miliardi: 140 diviso 6 fa circa 23,3 miliardi annui, circa l’1,4% del PIL, una grossa cifra se si pensa a quanto ammontano oggi gli investimenti pubblici.. In teoria con un moltiplicatore anche solo uguale a uno dovremmo avere un incremento analogo del PIL. Se si prevede che questo sia solo dello 0,5%, vuol dire che qualcosa non quadra.

Ricordiamoci poi anche delle condizionalità connesse all’uso dei fondi NGEU. L’esborso effettivo di tali fondi da parte della Commissione Europea sarà subordinato al fatto che essi vengano spesi seguendo i criteri indicati dalla Commissione stessa, ovvero nei tempi e nei modi giusti; ma noi non abbiamo mai brillato nella gestione dei fondi europei. Ma vi è anche un’altra condizionalità. La Commissione richiede che accanto alle spese si facciano delle riforme strutturali, come quella della PA e della giustizia, che in questo Piano sono solo vagamente accennate. Vi son dichiarazioni di principio non accompagnate da un cronoprogramma preciso.

A proposito di politiche economiche, qual è il suo giudizio sul modo in cui il governo ha affrontato le conseguenze economiche della pandemia. È stato fatto ciò che era necessario? O troppo o troppo poco?

Per giudicare una politica economica efficace dobbiamo considerare tre elementi: la quantità, la qualità e i tempi degli interventi decisi.

Dal punto di vista quantitativo l’ammontare dei fondi deliberati è stato corretto. Credo che il deficit di bilancio del 2020 alla fine si attesterà intorno al 10% del PIL, un po’ meno delle stime governative del 10,8%, anche perché le entrate non sono andate così male come si pensava. Basti pensare che, dopo il rimbalzo del terzo trimestre, anche nel quarto la produzione industriale e l’attività edilizia sono ritornate ai livelli di gennaio-febbraio 2020 o di fine dicembre 2019.

La caduta del PIL 2020 sarà più intensa in quei servizi più duramente colpiti dalla pandemia, come ristorazione, turismo, commercio, attività ricreative e culturali, che peraltro continuano a soffrono delle misure restrittive anti-contagio che continuano ad essere adottate. 

Quindi circa 170 miliardi di deficit dal punto di vista quantitativo paiono appropriati.

Dal punto di vista della qualità degli interventi adottati si è fatto il massimo sulla cassa integrazione, sul blocco dei licenziamenti e in parte anche sui ristori, dove peraltro qualcosa di più articolato forse si poteva fare, ma il punto dolente sono stati i tempi. Si riesce ad affrontare al meglio una pandemia se gli indennizzi vengono concessi nei tempi giusti a chi ne ha più bisogno: quindi ai piccoli commercianti, artigiani, imprenditori, soprattutto, che ne hanno urgenza. 

Invece sia la cassa integrazionesia i ristori, soprattutto in primavera, sono arrivati in ritardo.

Tutto sommato, quindi, la politica economica è stata abbastanza efficiente salvo che nella qualità di alcuni interventi e soprattutto nei tempi, troppo tardivi. 

Un altro elemento fondamentale della politica economica adottata è che tutto il deficit italiano è stato finanziato dalla BCE

Volevo esattamente chiederle questo. Abbiamo parlato del governo italiano. Come giudica gli interventi europei, della Commissione,  Next Generation EU a parte, e della BCE?

Gli interventi della BCE sono stati efficienti, efficaci e nei tempi giusti. Sono anzi andati anche oltre le previsioni per quanto riguarda l’impatto sull’Italia, perché, ripeto, hanno finanziato completamente il deficit italiano. Nessun debito ex novo è stato collocato presso investitori italiani ed esteri, ma questo è stato tutto acquistato dalla Banca Centrale Europea. 

Ciò ha garantito la sostenibilità del debito italiano, tanto che lo spread si è ridotto e i tassi dei BTP decennali hanno toccato un minimo storico allo 0,5%.

Ed è per questo che secondo lei non c’è la corsa a utilizzare il MES?

Assolutamente sì. Teniamo presente peraltro che tra i grandi Paesi europei l’Italia è l’unico con un tasso positivo dei titoli di Stato a lungo termine. Altri Paesi come la Germania e la Francia ormai sono in territorio negativo e non hanno alcuna convenienza ad usarlo. 

Se guardiamo ai tassi a sette anni, essendo questa la durata media del nostro debito, questi sono praticamente nulli anche in Italia (0,24%). Si tratta di un tasso solo lievemente superiore a quello che si pagherebbe sul MES: il risparmio di interessi sarebbe inferiore ai 100 milioni l’anno.

Lo si sarebbe semmai dovuto prendere a marzo 2020, quando è scoppiata la pandemia e quei fondi sarebbero stati necessari per affrontare l’emergenza sanitaria. Anche adesso sarebbe opportuno spendere di più in ambito sanitario, considerando che il MES specifico ha meno condizionalità del Next Generation EU, e che può essere utilizzato, a differenza di questo, anche per spese correnti connesse alla pandemia e non solo per investimenti; a questo punto però, essendoci una larga parte del Parlamento contraria all’uso dei fondi, è probabile che non lo si utilizzerà.  

Già prima della pandemia l’Italia non era certo nel gruppo di testa della crescita in Europa. Quali sono i fattori che influiscono in questo declino italiano che ci interessa da circa 25 anni?

Il problema data dalla seconda metà degli anni ‘90, ed è strettamente legato al fatto che è andato in crisi il modello di specializzazione produttiva italiano, basato sull’esportazione di beni di consumo a basso contenuto tecnologico e sull’importazione di beni d’investimento e poi anche di consumo ad alto contenuto tecnologico, che invece non siamo in grado di produrre.

Il Next Generation EU dovrebbe aiutarci anche in questo, nell’aggiornare il modello di sviluppo avvicinandolo a quello proprio di un’economia avanzata. 

Soprattutto per dipendere sempre meno dalle importazioni. Il nostro moltiplicatore del reddito oggi è minore di uno. Nella teoria keynesiana scolastica arrivava a 4. Ma ora siamo in un’economia aperta e la propensione marginale al consumo è più che compensata dalla propensione marginale alle importazioni.

Quello che produciamo ed esportiamo finisce in gran parte per alimentare il reddito di altri Paesi. 

Questo accade anche se siamo esportatori netti

Esatto. Occorre dire peraltro che oggi noi siamo esportatori netti perché abbiamo un output gap del 15% circa. Il nostro surplus commerciale è dovuto al fatto che il nostro reddito corrente è inferiore a quello potenziale. Se arrivassimo al nostro reddito potenziale le importazioni aumenterebbero molto più delle esportazioni e non saremmo in avanzo, ma in deficit. 

Le nostre esportazioni crescono infatti troppo poco perché il nostro modello di specializzazione è obsoleto. Questo perché le aziende sono troppo piccole e a carattere familiare e spesso poco propense all’innovazione, perché la Pubblica Amministrazione non è efficiente, ma soprattutto abbiamo scarsa capacità di attrarre imprese altamente produttive.

Perché anche non riuscendo ad avere produzioni innovative con le aziende italiane potremmo attirare aziende straniere che possano produrre sul nostro territorio, senza bisogno di importare, e avremmo così una crescita più elevata.

E oltre a questi difetti strutturali investiamo troppo poco in istruzione di alto livello e in ricerca e sviluppo. E non a caso questo è uno dei capitoli fondamentali del Next Generation EU.

Quali sono allora le priorità, le riforme più importanti cui il governo dovrebbe puntare secondo lei?

Un capitolo da affrontare è quello delle infrastrutture, materiali e immateriali. Tra le prime non solo quelle ferroviarie, ma anche quelle che consentono di mettere in sicurezza il territorio e quelle che permetterebbero una digitalizzazione spinta dell’economia e dei processi produttivi. Tra le seconde quelle riforme della giustizia civile, penale e processuale,  che incrementerebbero l’attrattività verso le imprese straniere.

E poi c’è l’istruzione, insieme ad una vera e propria politica industriale. Che favorisca quelle industrie che possano esportare di più.

Anche perché se ancora per il 2021 i vari vincoli fiscali europei saranno sospesi e saremo nuovamente coperti dalla misure straordinarie della BCE e dai primi fondi europei a fondo perduto, a partire dal 2022 e negli anni successivi i nodi della finanza pubblica italiana torneranno al pettine. Il supporto della BCE comincerà a ridursi, e l’esenzione dai vincoli europei non durerà per sempre. 

E allora per fare rientrare il deficit e il debito che nel frattempo sono aumentati non basterà una crescita aggiuntiva del PIL dello 0,5%, e i mercati finanziari re-inizieranno a sollevare problemi di solvibilità del debito pubblico, con un inevitabile rialzo degli interessi. Potremmo quindi essere costretti ad adottare misure che porterebbero a deprimere la crescita tanto auspicata.

La scommessa dei prossimi anni allora sarà quella di usare i fondi del Next Generation EU, in fretta e bene, a maggior ragione per questi motivi, ovvero per crescere permanentemente di più.

La ringrazio molto professore

Grazie a voi.

 


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