Great Resignation: cos’è e cosa comporta per l’economia del lavoro

Redazione BacktoWork 01/06/2022

I nuovi modelli organizzativi e produttivi imposti dalla pandemia hanno spinto molti lavoratori a rivedere le priorità e obiettivi professionali mettendo al centro il benessere e la qualità della vita

Che la si voglia chiamare Great Resignation, Big Quit o Great Attrition, il concetto è sempre quello: dimissioni volontarie e di grande portata.

Se ci riferiamo al nostro Paese, una serie di dati pubblicati dall’Aidp, l’Associazione italiana direzione personale registra che oggi le dimissioni volontarie interessano il 60 per cento delle aziende, riguardando diverse decine di migliaia di posizioni e con un coinvolgimento prevalente delle aree dell’informatica e del digitale, della produzione del marketing e delle vendite. La questione riguarda in primis gli addetti fra i 26 e i 35 anni (il 70 per cento del campione analizzato) e perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia.

Altre rilevazioni, firmate questa volta dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, rivelano che, lo scorso anno, quasi un milione e mezzo di persone hanno lasciato volontariamente il proprio posto fisso, con una crescita tendenziale del +43,7 per cento, mentre per il colosso delle consulenze McKinsey, il 40 per cento dei lavoratori nel mondo si dice intenzionato a cambiare lavoro nel corso dei prossimi mesi e il 53 per cento dei datori di lavoro ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti, con il 64 per cento che si aspetta che il problema continui, o peggiori, nei prossimi mesi.

Inoltre, dalle sue rilevazioni emerge che il 36 per cento di chi si è licenziato non aveva ancora in mano un nuovo lavoro. Ed è proprio questo che caratterizza maggiormente  il nuovo fenomeno che, diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, sta portando le persone a fare un vero e proprio salto nel buio, e sta facendo emergere prepotentemente il fatto che i datori di lavoro potrebbero non essere del tutto consapevoli di quanto siano stati difficili gli ultimi 18 mesi per i loro dipendenti.

Work-life balance, l’importanza del benessere psicofisico

In generale, ad alimentare queste circostante contribuiscono in modo particolare la ricerca di condizioni economiche più soddisfacenti e la speranza di trovare un migliore equilibrio fra vita privata e lavoro, quello che viene definito in gergo work-life balance.

Come emerge anche dall'ultima edizione del Randstad Workmonitor, i lavoratori italiani hanno condotto una profonda riflessione su priorità, carriera e obiettivi professionali, riportando al centro l’interesse per il benessere, il coinvolgimento e i valori fondanti della vita.

Sono dunque varie le ragioni per le quali i lavoratori scelgono di lasciare un’organizzazione, e - aumentando lo zoom - vediamo come queste vadano dalle relazioni professionali con i colleghi e i superiori all’aumento dello stipendio, dalla ricerca di un impiego più interessante ai valori aziendali in cui identificarsi, dal tempo da dedicare a sé stessi alla possibilità lavorare da remoto, dalle opportunità di carriera a quelle di specializzazione in un ambito di interesse, dal clima aziendale al desiderio personale di cambiare e fare nuove esperienze.

Qual è stata la scintilla di questa Great Resignation?

A scatenare il tutto è stata la pandemia che, oltre ad aver costretto in molti a rivedere le priorità della propria esistenza, ha generato una presa di contatto con la fattibilità e con la fruibilità dello smart working e del lavoro agile più in generale.

Uno strumento analitico che riesce in maniera molto efficace a far cogliere le dimensioni di questa Great Resignation è un colossale rapporto realizzato dal centro di ricerche Pew sul mercato del lavoro negli Usa, cioè laddove ha mostrato i suoi effetti in maniera più massiccia ed evidente. Tanto per avere un’idea, secondo gli ultimi dati del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, nell’agosto del 2021 è stato raggiunto il valore record di 4,6 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il lavoro. Dalla primavera 2021 il valore medio è stato di 4 milioni circa. 

Il primo dato è quello che riguarda le motivazioni alla base della scelta: bassa retribuzione (63 per cento), dall'assenza di opportunità di avanzamento (63 per cento) e dal sentirsi non rispettati sul lavoro (57 per cento). 

Circa la metà del campione ha, inoltre, affermato che i problemi di assistenza ai figli sono stati una ragione per lasciare il lavoro (48 per cento tra coloro che hanno un figlio di età inferiore ai 18 anni nel nucleo familiare) e una percentuale simile indica la mancanza di flessibilità nella scelta dell'orario di lavoro (45 per cento) o la mancanza di benefit adeguati

Proseguendo nella lettura dell’indagine emerge anche che circa quattro adulti su dieci che hanno lasciato un lavoro lo scorso anno affermano che il motivo è stato il numero eccessivo di ore lavorative, circa un terzo per via del desiderio di trasferirsi in un'altra zona, mentre relativamente pochi (18 per cento) hanno indicato come motivo la richiesta del vaccino COVID-19 da parte del datore di lavoro.

Alla domanda specifica sul fatto che le ragioni per cui hanno lasciato il lavoro fossero legate all'epidemia di coronavirus, il 31 per cento ha risposto di sì.

Passando al lato più “qualitativo” della ricerca, molti di coloro che hanno cambiato lavoro vedono miglioramenti: almeno la metà afferma che, rispetto all'ultimo lavoro, ora guadagna di più (56 per cento), ha maggiori opportunità di avanzamento (53 per cento), riesce a conciliare più facilmente lavoro e responsabilità familiari (53 per cento) e ha maggiore flessibilità nella scelta delle ore di lavoro (50 per cento).

Tuttavia, quote consistenti affermano che le cose sono peggiorate o rimaste invariate in questi ambiti rispetto al loro ultimo lavoro. 

A proposito del background formativo di chi ha lasciato il lavoro, Pew parte dal dato abbastanza ovvio che i laureati hanno maggiori probabilità, rispetto a coloro che hanno un'istruzione inferiore, di affermare che, rispetto all'ultimo lavoro, ora guadagnano di più (66 contro 51 per cento) e hanno maggiori opportunità di avanzamento (63 contro 49 per cento). A loro volta, i laureati con un livello di istruzione inferiore hanno maggiori probabilità di affermare di guadagnare meno nel loro attuale lavoro (27 contro 16 per cento) e che hanno meno opportunità di avanzamento (18 contro 9 per cento). 

Sul fronte del genere, quel che risulta dalla lettura dei dati è che gli uomini e le donne occupati che hanno lasciato un lavoro nel 2021 offrono valutazioni simili sul confronto tra il loro lavoro attuale e quello precedente. Un'eccezione degna di nota riguarda il bilanciamento tra lavoro e responsabilità familiari: sei uomini su dieci affermano che il loro attuale lavoro facilita la conciliazione tra lavoro e famiglia, una percentuale superiore a quella delle donne che affermano lo stesso (48 per cento).

Complessivamente, circa un adulto statunitense non pensionato su cinque (19 per cento) - equamente divisi tra uomini (18 per cento) e donne (20 per cento) - dichiara di aver lasciato un lavoro in qualche momento nel 2021, per scelta e non perché licenziato, messo in cassa integrazione o perché un lavoro temporaneo era terminato.

 

 




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